sabato, gennaio 14, 2006

Burundi: Progetto Viol


20/12 Eccomi di nuovo ad aggrapparmi al tentativo di lasciare una traccia o piuttosto a rimettere in ordine pensieri e sensazioni. Ma il mio scrivere, debbo ammetterlo, è contaminato dalla presenza di quei lettori che passano per la sala virtuale del Joe’s. Avverto un leggero imbarazzo nell’aprire questi semplici bit allo sguardo incuriosito o annoiato di chi non conosco. Eppure, sebbene l’idea di essere letto stuzzichi il mio frustrato bisogno d’approvazione facendomene vergognare, ne sento fisicamente il bisogno, forse per assegnare un significato agli eventi, una direzione, una parvenza di percorso a questo apparente vagare. - Uno sparo fuori dalla finestra -
Mi diverte lo straniamento che provoca l’accorgersi delle dinamiche della vita di sempre svolgersi in questo contesto fuori tempo; in questo Natale assolato invidio la neve che entrerà oggi nelle vostre scarpe e mi perdo inseguendo le memorie destate dall’ascolto del buon Guccini, e, con un rumore di mare che mi ricorda i sapori dei giorni passati a Sestri, dall’immortale De Andrè. In fondo pure qui la vita è uguale a se stessa; sotto nuove spoglie si rincorrono amori, paure e desideri e la vita, pur schiacciata dal peso dell’urgenza del bisogno, si snoda lungo il tempo, seguendo un diverso ritmare.

21/12 Stamani ho fissato un appuntamento con C. dell’Unicef per fare il punto della situazione sul progetto Viol. Si tratta di un programma messo in moto dalle Nazioni Unite per arginare il fenomeno delle violenze sessuali che ha assunto proporzioni indicibili durante la crisi, come chiamano qui gli ultimi dieci anni di guerra. Questa terribile esperienza ha lasciato ferite non rimarginate che ardono come brace sotto la cenere del cambiamento. Sono convinto che il passaggio attraverso quei terribili momenti abbia segnato non solo quegli anni non ancora “passato”, ma continui a gettare la sua ombra sul “presente”, facendo barcollare la speranza di un “futuro”. Fenomeni sociali violenti che durano a lungo trasformano non solo la storia, ma dinamiche profonde. Ciò che Jung chiama “inconscio collettivo”, ovvero il funzionamento tipico di una nazione, la psiche di un intero gruppo sociale, la gestalt o l’insieme di quei processi che prendono forma nei luoghi comuni, viene stravolto dal perdurare di dinamiche di violenza. Credo che un caso conosciuto che possa aiutarmi a spiegare questo concetto è il confronto arabo-israeliano in Palestina. Le problematiche che hanno generato il conflitto iniziale si sono solidificate e su questi tumori è cresciuto il corpo sociale, su queste basi si è andata costruendo l’identità delle nuove generazioni nate e cresciute in un contesto di aperto contrasto armato; un’identità che emerge solo in relazione antagonistica con l'altro, con il nemico.
Ho conosciuto un altro esempio di tale processo in occasione del servizio civile con i Caschi Bianchi in Cile. A 15 anni dalla fine della dittatura il governo, in questo periodo sotto elezioni, sta ancora affrontando la pesante eredità di Pinochet. Il Cile è stato capace di dare l’impulso ad un processo più o meno completo di riconciliazione: intraprendere questo cammino è costato anni di impegno per questa giovane rinata democrazia ed i risultati, per quanto parziali, cominciano appena a vedersi. Diciassette anni di terrorismo di stato non hanno colpito esclusivamente le vittime politiche, i torturati o i desaparecidos: hanno piegato le loro famiglie, segnato l’esistenza dei loro figli e nipoti, molti dei quali nati in esilio, generando un trauma i cui effetti si allargano, come le onde concentriche di uno stagno bucato dal lancio di una pietra, a tutta la società per molti anni.
Credo quindi sia importante riflettere sull’impatto che un gesto violento, specialmente se perpetrato su larga scala, possa avere nel tempo, condannando intere generazioni alla fatica ed all’incertezza del lavoro di elaborazione di un lutto grave per poter ritornare ad un funzionamento positivo.
Il fenomeno delle violenze sessuali in Burundi segue questo stesso percorso. Frutto del delirio del conflitto interetnico segna oggi la realtà delle relazioni. Non sono allora sufficienti, per quanto necessari, interventi specifici di supporto alle vittime, quanto programmi coerenti nel lungo periodo per introdurre una nuova riflessione verso una sessualità positiva. Il tabù si configura come il blocco di quest’evoluzione poiché nasconde e nega tale dinamica.
Per inquadrare gli interventi sul campo delle singole Ong il lavoro delle grandi agenzie delle Nazioni Unite diviene molto importante. Nella realtà quotidiana tuttavia spesso l’obiettivo si ingarbuglia nel terreno politico e nelle buche della burocrazia. Di fronte a questa maniera tartarughesca di funzionare le Ong faticano a trovare i mezzi offerti loro sulla carta per rendere concreta la dimensione dell’aiuto. In ogni caso facciamo del nostro meglio: l’equipe locale del GVC per il progetto Viol, composta da una psicologa, un’assistente sociale ed un’infermiera passa ogni giorno nei Centri di Salute della provincia per accogliere, ascoltare ed aiutare le vittime di violenze sessuali sul piano medico (test dell’Hiv e terapia antiretrovirale) ed accompagnarle nel caso trovino il coraggio di sporgere denuncia. Questo servizio mobile di consultazione varia il proprio programma giornaliero in base alle condizioni di sicurezza: ogni mattina un logista del GVC si reca alla riunione dell’OCHA (per il coordinamento dell’azione umanitaria) ed in base alle ultimissime notizie si rende disponibile l’accesso ad un sito piuttosto che ad un altro.
Inoltre l’equipe organizza continuamente sessioni di formazione. In Burundi la formazione ha assunto una dinamica controproducente nel lungo periodo: infatti tutti gli organismi internazionali prevedono una piccola quota (per diem) per i partecipanti. In effetti questa somma aiuta a pagarsi il trasporto verso il luogo dove si tiene la formazione, ma per molti rappresenta un imperdibile ingresso per arrotondare i magri stipendi. In questo modo tale incentivo si sostituisce alla motivazione. Io partecipo a queste formazioni come supervisore, ma poi non posso seguirne i contenuti poiché, giustamente, si svolgono in lingua Kirundi. La settimana scorsa in aula sedeva anche un militare: credo dovremmo puntare direttamente sulla loro partecipazione, visto che i dati raccolti sul campo li indicano tra i principali autori di abusi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Sicuramente molto incuriositi e interessati ai tuoi stupendi scritti per respirare un pò di Africa!